ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DURANTE IL PERIODO DI PROVA NON SVOLTO
Periodo di prova – mancato svolgimento della prova – licenziamento – illegittimità
“Se al dipendente non è stata fatta svolgere la prova, il recesso del datore di lavoro comunicato nel periodo di prova dovrà essere dichiarato illegittimo”
IN CASO DI OMISSIONE DELLA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E’ NULLO
Tribunale di Pavia, ordinanza del 30.10.2020, est. Allieri, X (avv.ti Guariso, Neri e Bergonzi) c. Y
procedura licenziamento collettivo – omissione – licenziamento per GMO – nullità
“l’omissione della procedura imposta dall’art. 4 L. 223/1991 per il licenziamento collettivo determina la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 commi 1 e 2 L. 300/1970“.
NULLO IL LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE LICENZIATA IN CONCOMITANZA CON PRATICHE DI PROCREAZIONE ASSISTITA.
Divieto di licenziamento in ragione della maternità – lavoratrice che accede a cure per procreazione medicalmente assistita – applicabilità – esito negativo delle cure – irrilevanza – onere della prova a carico delle parti
La Corte d’Appello di Trieste ha dichiarato nullo il licenziamento di una lavoratrice discriminata “in conseguenza o connessione con la sua ricerca della maternità”, poiché licenziata, per asserito giustificato motivo oggettivo, proprio in concomitanza con l’accesso alla FIVET (fecondazione in vitro). La discriminazione diretta è stata accertata a prescindere dall’esito della tecnica e, dunque, a prescindere dalla circostanza che, poi, la lavoratrice sia rimasta incinta.
L’ONERE DI PROVARE CHE IL LICENZIAMENTO È STATO INTIMATO PER ISCRITTO GRAVA SUL DATORE DI LAVORO.
Contumacia – onere della prova – fatti negativi – forma scritta – datore di lavoro – licenziamento orale – inefficacia.
Sebbene la scelta processuale della contumacia non consente di fare applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., tale strategia difensiva non è invece idonea a revocare il normale riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., non potendo farsi carico alla parte costituita di provare fatti negativi quali la mancata consegna di espresso provvedimento di licenziamento. In giudizio risulta che il rapporto di lavoro tra le parti in causa sia cessato in quanto il datore di lavoro non risulta aver dato seguito alla lettera di messa a disposizione, per cui spettava al datore di lavoro dimostrare o di aver intimato detto licenziamento in forma scritta o, in alternativa, che non di licenziamento si era trattato bensì di dimissioni rassegnate direttamente dal lavoratore o di risoluzione consensuale. Conseguentemente il licenziamento non può che essere privo di effetto.
LA SOSPENSIONE DEI TERMINI PER L’EMERGENZA DA COVID-19 SI APPLICA ANCHE ALL’IMPUGNAZIONE STRAGIUDIZIALE DEL LICENZIAMENTO
Termine di impugnazione – licenziamento – impugnazione stragiudiziale – impugnazione giudiziale – COVID-19 – sospensione dei termini
La sospensione dei termini ex art. 83 DL. 18/2020 durante il periodo emergenziale si applica anche al termine di impugnazione stragiudiziale del licenziamento ex art. 6 L. 604/1966.
DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE: ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO QUANDO UNA PARTE DELLE ASSENZE SIA DETERMINATA DALL’INADEMPIMENTO DEL DATORE DI LAVORO NELL’ASSEGNARE MANSIONI IDONEE
È illegittimo – e deve esser sanzionato con l’applicazione dell’art. 18, comma 7 L. 300/70 – il licenziamento del lavoratore per asserito superamento del periodo di comporto quando una parte, anche limitata, delle assenze sia determinata dall’inadempimento del datore di lavoro rispetto all’obbligo di assegnare mansioni idonee (nella specie il lavoratore, affetto da patologia psichica, era stato lasciato sostanzialmente inattivo e ciò aveva aggravato la patologia). Qualora sul piano medico-scientifico non sia possibile accertare in quale misura le assenze siano imputabili al comportamento datoriale occorre affidarsi al criterio della certezza probabilistica, da applicarsi però non secondo un criterio meramente statistico (che potrebbe anche mancare per assenza di casi analoghi ) ma secondo un criterio logico, valutando tutti gli elementi di conferma (e al contempo di esclusione di altre possibili cause alternative) relativi al caso concreto (nella specie il Giudice ha ritenuto che avendo il CTU individuato un contributo causale dell’inadempimento del datore di lavoro variabile tra un giorno e 6 mesi, potesse ritenersi provato che detto comportamento aveva concorso a determinare l’assenza quantomeno per i 9 giorni che avevano causato il superamento del periodo di comporto).
Natura discriminatoria del licenziamento intimato al rientro dal periodo di infortunio e onere della prova.
Con sentenza del 3.9.2020, il Tribunale di Pavia ha accolto il ricorso presentato da un lavoratore licenziato immediatamente al rientro da un periodo di assenza per infortunio sul lavoro.
Il Giudice del Lavoro ha accolto le tesi esposte dagli avvocati Guariso, Neri e Marzolla riconoscendo la natura discriminatoria del licenziamento, posto in essere esclusivamente “in ragione della (…) sopravvenuta infermità” del lavoratore “o comunque delle sue difficoltà a rendere la prestazione” e, dunque “indotto dal suo stato di salute”. Nel giungere a tale conclusione, il Tribunale ha affermato che “il convincimento del giudice si può fondare anche su una sola presunzione purché grave e precisa (eventualmente anche in contrasto con altre prove, qualora sia ritenuta talmente grave e precisa da rendere inattendibili gli elementi contrari). Non è necessario che fra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta necessità, essendo piuttosto sufficiente che – secondo un criterio di normalità – il fatto ignoto sia desumibile da quello noto come conseguenza ragionevolmente possibile. Insomma, il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto può ritenersi prova adeguata, purchè sia accertato in termini di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza può verificarsi secondo regole di esperienza”.
LICENZIAMENTO COLLETTIVO
Illegittimità di accordi sindacali che limitino la platea dei licenziamenti ai soli addetti agli appalti cessati – art. 5 L. 223/1991
Le sentenze in commento riguardano entrambe la seguente vicenda: un’importante società operante nella logistica, che nel corso del tempo aveva esternalizzato la gestione dell’attività a diverse società cooperative, tutte facenti capo al medesimo Consorzio, aveva dismesso tutte le proprie attività presso un dato magazzino.
La dismissione delle attività aveva quindi comportato la cessazione dei contratti di appalto tra la società e le cooperative ivi operanti, le quali, a loro volta, hanno licenziato tutti i dipendenti addetti al solo appalto cessato all’esito della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991.
I licenziati hanno quindi impugnato i recessi datoriali ritenendo illegittima la delimitazione dei licenziamenti ai soli addetti agli appalti cessati effettuata senza comparazione con i numerosi dipendenti operanti in altri appalti, nonostante la fungibilità delle mansioni svolte.
Dal canto loro, le cooperative convenute in giudizio sostenevano la legittimità del loro operato poiché i licenziamenti erano stati effettuati in conformità a quanto previsto da alcuni accordi sindacali stipulati in seno alla procedura di licenziamento collettivo ove, tra gli altri aspetti, si era ritenuto “superfluo stabilire un criterio di scelta sulla base del quale procedere all’individuazione dei lavoratori in esubero” dato che, dal loro punto di vista, la cessazione dell’appalto, di per sé, giustificava l’esubero di tutto il personale ivi addetto.
Le sentenze in commento sono interessanti perché, bocciando questa tesi difensiva, dichiarano esplicitamente l’illegittimità di tali accordi sindacali stipulati in seno alla procedura di licenziamento collettivo sulla basa delle seguenti motivazioni.
La determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale) adempie a una funzione regolamentare delegata dalla legge (cfr. C. Cost. 268/1994) per cui deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati – oltre a dover essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori – devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità, operando senza discriminazione tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il cosiddetto “impatto sociale”, e scegliendo, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle esigenze oggettive a fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi, anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore.
I criteri adottati dagli accordi sindacali devono quindi essere applicabili all’intera platea di lavoratori e il datore di lavoro deve fornire la prova delle esigenze aziendali alla base della limitazione dei licenziamenti ai soli appalti cessati, dando dimostrazione di aver comparato la professionalità dei lavoratori ivi addetti con quelli addetti ad altri appalti o unità locali. Tale prova non può essere esonerata dalla previa conclusione di accordi sindacali che – in quanto privi di qualsiasi specifico riferimento alle ragioni obiettive che impediscono di comparare il personale addetto all’appalto cessato con il restante personale fungibile – si pongono in diretto contrasto con il complesso normativo sopra richiamato.
La Corte di Cassazione, nelle diverse sentenze in cui ha analizzato la legittimità o meno di accordi sindacali (come ad esempio quello sul criterio dell’anzianità di servizio senza soluzione di continuità o quello della pensionabilità), ha sempre ricordato che i criteri ivi previsti devono avere carattere oggettivo, ed essere applicabili “all’intera platea di lavoratori con esclusione dunque in radice del carattere discriminatorio” (v. Cass. civ. 17249/16, nonché Cass. civ. 18504/16 sul criterio della pensionabilità, o ancora Cass. civ. 31872/18 sul criterio della maggiore competenza e dell’alta specializzazione fissato in sede di accordo sindacale per individuare i lavoratori da mantenere in servizio).
E’ quindi essenziale che il criterio risponda a criteri oggettivi e sia applicabile all’intera platea dei lavoratori (Cass. civ. 17249/16 e Cass. civ. 2694/18).
Tale situazione non si è verificata nel caso in esame, laddove il criterio di cui all’accordo sindacale ha riguardato, su una platea di 137 soci lavoratori, solo quelli addetti al deposito dismesso, sull’unico presupposto della cessazione di tale attività.
Neppure la società convenuta ha addotto, in ossequio ai principi espressi dalla Suprema Corte, elementi atti a dimostrare che tali lavoratori non fossero idonei ad occupare le funzioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti (così, Cass. civ., 15.6.2006 n. 13783).
Tra l’altro, l’assegnazione ad un appalto neppure può ritenersi definitiva, trattandosi di lavoratori soggetti a trasferimenti da un cantiere ad un altro in base alle esigenze della convenuta.
Un simile accordo sindacale non può quindi ritenersi legittimo.
Corte di Cassazione, 19 marzo 2016, est. Lorito, R (avv. Guariso) c. Mac
Chiusura di Unità Locale – Informazioni ex L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, – Comparazione nel complesso aziendale -effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale e possibilità di misure alternative
Corte d’Appello di Milano, 4 dicembre 2014, est. Pattumelli, C.L.O. Cooperativa Lavoratori Ortomercato A.r.l. c. P. e altri (avv.ti Cass. 24772-2019 del 3.10.2019, Neri e Cecatiello)
LICENZIAMENTO COLLETTIVO DICHIARATO ILLEGITTIMO E SUCCESSIVO LICENZIAMENTO PER GMO INTIMATO PER LE STESSE RAGIONI SOSTANZIALI
licenziamento collettivo dichiarato illegittimo – successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo – stessi motivi – frode alla legge – configurabilità
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo (nella specie, soppressione della posizione lavorativa) realizza uno schema fraudolento ex art. 1344 c.c., il cui accertamento deve essere condotto dal giudice di merito in base ad una valutazione unitaria e non atomistica di ulteriori indici sintomatici dell’intento elusivo, quali la mancata ottemperanza del datore all’ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso.
LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO
Tribunale di Pavia, 7 dicembre 2016, est. Oneto, B. (avv. Guariso, Neri, Marzolla) c X.
Con ordinanza del 7/12/2016 il Giudice del lavoro di Pavia ha accolto la tesi sostenuta dal nostro studio accertando il diritto alla reintegrazione ad un lavoratore infartuato, licenziato per superamento del periodo di comporto.
La pronuncia è di estremo interesse perché riconosce una sostanziale differenza tra la “malattia con carattere temporaneo” – la sola che può essere valutata ai sensi dell’art. 2110 e ai fini del superamento del periodo di comporto – e la malattia permanente, o comunque di durata indeterminata o indeterminabile, che rappresenta una sopravvenuta “incapacità fisica” e che obbliga il datore di lavoro a verificare la possibilità “di utilizzare diversamente il dipendente”.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Trib Milano 13 11 2017 est. Lombardi tempo di carico e scarico dell’autotrasportatore
Il tempo trascorso dall’autotrasportatore durante le operazioni di carico e scarico, anche quando queste non richiedono la sua attiva partecipazione, sono a tutti gli effetti “tempo di lavoro” e non può essere quindi sanzionata sotto il profilo disciplinare la legittima condotta del lavoratore che ponga in tali fasi il tachigrafo in modalità di lavoro anzichè di “disponibilità”.