SEI GIORNI A LAMPEDUSA, UN’UBRIACATURA DI UMANITÀ di Paola Cavanna
Una summer school su migranti e diritti umani a Lampedusa (http://www.migrationsummerschool.com/), mi sembra un’idea così logica da non poter resistere. Vedere con i propri occhi quel luogo simbolo universale di sofferenza e solidarietà, e riflettere insieme a studiosi e operatori umanitari. Decido di partire. Da subito sento forte la preoccupazione della popolazione locale di perdere il turismo, vera vocazione e unica risorsa dell’isola, insieme alla pesca. Loro parlano dell’antica legge del mare ma non vogliono la spettacolarizzazione degli sbarchi e dei salvataggi. Non so se questo sia razzismo. Penso di no.
Scrivo queste poche righe davanti all’archivio storico di Lampedusa (http://www.archiviostoricolampedusa.it/), un piccolo luogo della memoria che ti incanta con le foto di un passato che non torna mentre ragazzi nigeriani, somali e gambiani imparano alcune parole di italiano e qualcuno tenta di mettersi in contatto coi familiari. Il sole brucia la pelle, ma una gentile brezza subito la ristora.
Una trentina di persone, non solo giovani, provenienti da 20 nazioni, inclusi Stati Uniti e Libano, con tutte le difficoltà di comprendersi in una lingua che per la maggioranza di noi non è lingua madre. A Lampedusa, una periferia del mondo. Lezioni di antropologia, sociologia e diritto alternate a momenti di incontro con la popolazione locale e con gli operatori (Cisom, Unicef, Mediterranean Hope, Guardia Costiera). Tutto questo in una cornice magica, dove ogni tramonto ti regala la pace. Dopo cena non mancano le chiacchiere coi migranti che sfuggono all’immobilità dell’hotspot grazie a un buco nella recinzione e alla tolleranza tacita delle autorità. In paese, di sera, i migranti diventano protagonisti. Tanti turisti incuriositi li avvicinano e parlano con loro. Loro, i sopravvissuti, vorrebbero costruire il loro futuro e non capiscono perché sono bloccati al centro di Contrada Imbriacola. Sono tristi, non sanno dove sono e quando potranno passare il ‘fiume’, cosí chiamano quella parte di Mediterraneo che divide la piccola Lampedusa dalla ‘terraferma’. I lampedusani si sentono abbandonati, ma ogni volta che vedono quei volti e incontrano persone in carne ed ossa, portatrici di vicende umane complesse e irripetibili, dimenticano e si impietosiscono, di nuovo continuamente. Il contatto diretto con l’umano è difficile da sostenere, anche per noi che stiamo sull’isola solo per pochi giorni.
Cosa rimane delle belle parole, delle accese discussioni, delle domande difficili, delle questioni non risolte, degli incontri con le persone del posto e con i sopravvissuti? Agli occhi di una giurista come me, la discrezionalità del proteggere gli uni e non gli altri. Certo, il diritto non può incontrare le storie individuali (non è un caso che il simbolo occidentale della Giustizia abbia una spada in mano e una benda sugli occhi), deve ragionare per categorie: rifugiati o migranti economici? Niente in mezzo. Confinare abissi drammatici dentro rassicuranti categorie giuridiche. Sono perplessa. Mi domando se possa dirsi vera giustizia quella che non si avvicina alle sofferenze individuali cercando di alleviarle, che non sa guardare negli occhi, che non ascolta la storia dell’altro. Porterò via con me la passione delle tante persone incontrate che, in modi anche molto diversi tra loro, si sporcano le mani e cercano di realizzare nel quotidiano i diritti inviolabili dell’uomo di cui parla all’art. 2 la nostra Costituzione. Penso, inoltre, a quanti talenti vadano sprecati per il nostro egoismo, la nostra cecità e la nostra pigrizia di immaginare un mondo diverso.
Sei giorni sono decisamente troppo pochi per capire, ma credo che calpestare quella terra di frontiera sia indispensabile per immaginare una soluzione che sappia essere all’altezza della posta in gioco, che sappia avvicinare il ‘diritto’ alle linee curve, e talvolta storte, delle vicende umane.
Dalla porta d’Europa,
Paola Cavanna